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10 luglio, 2011

Paesaggi e giardini, itinerari (ritrovati) nell’immaginazione

            Maestro Venceslao, «Il Ciclo dei Mesi», aprile, Trento, Castello di Buonconsiglio

Oltre il giardino era il titolo (italiano) di una deliziosa commedia Usa di Hal Ashby (1979) dove tutto ruotava
intorno all’incredibile saggezza di uno strano giardiniere.
Sono tanti, anzi tantissimi, i riferimenti (colti e no) che si potrebbero sfruttare per schiarirsi le idee sul legame tra natura, più o meno addomesticata, e varie forme d’arte, più o meno figurative: i recentissimi successi letterari della Diffenbaugh e della Dandini (oltre alla Virginia Woolf modello Sissinghurst), i Giardini di marzo di Mogol-Battisti, i Ranz de vaches del Guglielmo Tell di Rossini. Oppure: il Portale dell’Antelami nel Duomo di Parma, la Primavera del Botticelli, le Madonne del Crivelli, il giardino inglese della Reggia di Caserta dipinto da Hackert, la palude di Lara Favaretto per la Biennale pre-Sgarbi, l’albero (in bronzo) con mele (vere) di Anya Gallaccio, finalista di un Turner Prize. Pubblicato nel 1950 La scoperta della natura (Piccola Biblioteca Einaudi) del viennese Otto Pächt (1902-1988), uno dei massimi storici dell’arte del secolo scorso, ha aperto la via alla definitiva comprensione del valore estetico della natura, una via che non portava più solo verso Nord (è qui la novità), non più solo verso Rembrandt o verso il Polittico di Gand di van Eyck. Ma che cominciava in Italia («Primi studi italiani» recita il sottotitolo): con i giardini in fiore dipinti sulle pareti delle ville romane d’eta augustea, con le figure dei falchi in volo della corte di Federico II puer Siciliae, con i grandi lombardi come Michelino da Besozzo. Ma dove la vera svolta è forse in quel Ciclo dei Mesi nella Torre dell’Aquila al Castello di Buonconsiglio di Trento (XIV secolo), nei cui affreschi, spiega Enrico Castelnuovo nel bel saggio introduttivo, «vediamo susseguirsi quasi fossimo in una loggia, vasti paesaggi visti in ogni stagione: dai campi innevati al fiorire della primavera, dall’abbondanza delle messi agli alberi spogli». E in quelli che lo storico viennese definisce «paesaggi da calendario» con le loro minuziose rappresentazioni di verdure (animali, uccelli, farfalle, conchiglie, insetti compresi). Ma al di la delle teorie contenute in questa raccolta, oscura e affascinante come le miniature di cui Pächt era appassionato, sorprende la stessa storia di un libro finora mai uscito in italiano (questa prima edizione curata da Fabrizio Crivello è stata tradotta da Francesca Pistone) e del suo autore: grandissimo storico dell’arte, certo, ma anche gastronomo amante dei serviettenknödel dell’Hotel Bristol di Vienna e finanziatore di Musil. Come la sua modernità: «La scoperta del valore estetico del paesaggio è il risultato finale- scrive-di una maturazione al quale contribuirono tutte le forme di immaginazione. Fingere che sia solo il risultato di un’evoluzione pittorica sarebbe ingenuo e miope». Insomma, la saggezza di Pächt era già da tempo ben «oltre il giardino».

di STEFANO BUCCI


Il libro: Otto Pächt, «La scoperta della natura», Piccola Biblioteca Einaudi, pp. 110, e 24.

Domenica 10 Luglio 2011 Corriere della Sera

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