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28 febbraio, 2011

L'apparenza inganna


Il più potente fu forse Napoleone che, reduce dalla vittoriosa campagna d'Italia, soggiornò all'Isola Bella, sul Lago Maggiore, nel 1797. A ricordo della sua visita restano oggi il grande tasso sotto cui riposò, imponente come allora nell'ardita potatura conica, e la divertente cronaca stesa dal massaro dell'isola in una lettera al conte Borromeo, lettera nella quale ci si augurava che quelle sessanta persone al seguito del generale, chiassose, invadenti e così poco pulite da "ringraziare Iddio essere stata breve la dimora", non tornassero mai più, mentre si strappava al conte il permesso di una bugia sulla "nefasta insalubrità dell'aria isolana" per scongiurarei il ripetersi di un eventuale nuovo sgradito soggiorno.
Se la visita napoleonica fu un disastro, non si può dire altrettanto di quelle degli altri ospiti celebri dell'isola, numerosi: da Montesquieu a Flaubert, a Stendhal, che la definì uno dei luoghi più belli del mondo, a Dickens, Hemingway, a principi e regnanti. Storie di grandezze che si accompagnavano bene alla bellezza maestosa dell'isola, dove i dieci piani terrazzati a 37 metri sulle acque del lago, le eleganti architetture del giardino barocco, statue, obelischi, pinnacoli e piante esotiche testimoniavano al mondo la potenza della casata Borromeo. Ma accanto ai nomi altisonanti, da sempre, i semplici visitatori: viaggiatori intrepidi all'epoca di Coethe, turisti anonimi ma appassionati oggi. Dunque, la storia grande di un'isola fastosa e, accanto, nascosta, un'altra storia più piccola, privata, proprio come i giardini di famiglia che i principi Borromeo ci hanno aperto per la prima volta. Il rude scoglio nel Cinquecento abitato da pescatori, nel Seicento, per opera di Vitaliano VI Borromeo, diventava un giardino grandioso, e quella storia piccola, segreta, incominciava già da lì, ignara dei secoli che avrebbe percorso.

Tra i pescatori che ai Borromeo vendettero parte delle loro proprietà per consentire la creazione del parco c'era infatti una famiglia che, sull'isola, nel correre degli anni, ha continuato ad abitare: oggi Mario Omarini di quest'isola è capogiardiniere, e racconta con celato orgoglio di quei suoi lontani antenati, dei giochi di bambino tra le piante del parco curate prima di lui dal padre giardiniere, di quei suoi 37 anni di mestiere spesi giorno dopo giorno all'Isola Bella per darle una bellezza nuova e antica insieme. Aiutato da nove giardinieri, Mario Omarini ha infatti ricomposto seguendo i disegni originari i tre ettari del parco, nella sapienza e nella fatica di un mestiere che lui racconta però con una semplicità aperta, disarmante, quasi come un destino che la storia dell'isola gli abbia cucito addosso. Certo un destino curioso, che di vite, oltre alla sua sembra averne coinvolte altre, scrivendo le pagine di un racconto privato dove protagonisti sono ora le umili fatiche dei pescatori, ora le passioni nascoste di un giovane ingegniere, Alessandro Pisoni che, sottovoce, da dieci anni, seguendo il destino paterno, è paziente archivista dell'isola. Ma anche, più semplicemente, quei ricordi dolci e tenaci che legano le memorie personali ai passi qui consumati e poi perduti di un'infanzia felice.
Forse è per questo che percorrendo il giardino privato dei principi Borromeo – un po' meno di un ettaro sul primo terrazzamento – anche i fasti grandiosi del Barocco all'italiana sembrano ridimensionarsi, raccogliersi in una misura più intima, nell'armonia di una bellezza naturale e composta. Così anche il motto Hiiinilitas, stemma della casata Borromeo, disegnato a grandi caratteri nel verde del prato con tozzetti di marmo e fiori diversi nel volgere delle stagioni, non racconta soltanto, e in apparente contrasto, il gioco del potere ma testimonia la fedeltà alle memorie di famiglia. L'ampio distendersi del prato ricamato dalla scritta diventa una sorta di tappeto che introduce, come un lungo corridoio prospettico, alle stanze private del giardino. E come nelle nobili dimore i corridoi sembrano non finire mai, eccone un altro, più stretto ma non meno imponente, scandito ai lati da cipressi altissimi, resi tali dallo scorrere di un tempo che li vuole qui fin dai primi anni del Settecento. Enormi anche le due sofore che lo chiudono su un lato: basse e allargate a ombrello, regalano agli adulti un naturale riparo dal sole e ai bimbi il fascino di giuochi ingenui nascosti tra le fronde intricate. Sull'altro lato, il filare di cipressi introduce a un luogo che è ancora una volta maestoso e privato insieme. Infatti, il Teatro d'Ercole, realizzato intorno al 1666 e così chiamato perché la nicchia centrale dell'esedra racchiude una colossale statua in tufo ispirata al mitico eroe, racconta di un teatro a uso esclusivo dei principi, per il quale nel Settecento venivano scritte apposite commedie – spesso interpretate dai pescatori dell'isola – tra i cui autori si annovera nientemeno che Goldoni.Dietro la severa imponenza del Teatro d'Ercole,quasi come nel retro vivace di un palcoscenico, si apre una zona dalla bellezza più scomposta, arruffata che, lontana dalle perfette geometrie del giardino all'italiana, disegna il silenzio selvaggio di un boschetto fatto di felci rare e di allori alti venti metri, sistemati qui, nella parte più esposta al freddo del nord, come naturale frangivento. Una teoria di grotte in pietra e tufo, solcate dall'umidità dei muschi e dal canto ininterrotto di infiniti rivoli d'acqua, introduce, come una sorta di serra segreta, al piano dove sono raccolte le piante di agrumi. Un duplice filare raccoglie oggi diciotto aranci piantati in terra che, con i 250 vasi di limoni sparsi nell'isola, raccontano lo stupore di un clima mite e la meraviglia di una storia antica, iniziata nel 1512 all'Isola Madre con l'importazione dalla Liguria sia del primo arancio sia del giardiniere.Simboli nel Sei e Settecento di ricchezza, di potere e di una bellezza pregiata, gli agrumi nelle mani accorte dei Borromeo diventeranno però anche denaro, con un commercio di essenze profumate che si spingeva lontano, fino al di là delle Alpi. In buona compagnia di quei fagiani e faraone che erano allevati liberi sull'isola per compiacere allo svago aristocratico della caccia ma anche per finire, richiestissimi e ben pagati, sulle tavole dei nobili milanesi. Un occhio attento alle finanze — nel 1762 il bilancio dell'isola descrive una raccolta di "10.000 limoni, 3.000 naranzi e 100 cedroni per un totale di vendita di 1575 lire" — e uno rivolto allo spirito. Fin da allora mecenati sensibili alla bellezza e alla cultura, i Borromeo continuano oggi questa nobile tradizione di famiglia. Le parole della principessa Bona Borromeo parlano di impegno e di fatica, ma anche di gioia. "È da 43 anni che mi occupo dell'isola e da 37 che vedo al lavoro Mario Omarini: una vita, e tanta paziente tenacia. Ma ogni volta la rinascita di un piccolo pezzo di storia mi diverte e mi emoziona". Ascoltandola, la mente corre all'antenato e grande artefice Vitaliano Borromeo, che tanto amò qest'isola con tenerezza Chiamata "La mia dama", da donarle il cuore, per sua volontà da allora sepolto in una piccola urna sotto il pavimento della chiesa. Ancora una volta la storia di un'isola grandiosa raccoglieva il segno semplice e nascosto di un piccolo racconto privato.

Testo di:  Elena Sozzi

fonte: AD












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