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01 maggio, 2011

Il giardino monastico nelle Marche.

Veduta dell'abbazia di Santa Maria di Chiaravalle, delle case e terreni contigui, prima metà del XVIII secolo jesi, Biblioteca Planettiana, Archivio Guglielmi Balleani

 Qui la terra, secondo la regola di San Benedetto, era curata e molti monasteri avevano vasti terreni ben coltivati che li circondavano e almeno un chiostro piantato come giardino. I monasteri marchigiani non contraddicevano questa regola, anche se le architetture religiose della regione non ci hanno lasciato molti esempi significativi di orti conventuali o chiostri, se non nella documentazione storica, giacché tutti più o meno profondamente trasformati.
Fra i rari chiostri ancora verdi, ricordiamo quelli del convento dell'Annunziata e della chiesa di Sant'Agostino ad Ascoli Piceno, anche se il loro corredo vegetale è pressoché scomparso; fra gli orti, quello del convento di Santa Chiara a Camerino. L'abbazia cistercense di Santa Maria di Chiaravalle a Fiastra, che presenta un bell'esempio di chiostro quadrato di vaste proporzioni, in origine coltivato a giardino ma in seguito pavimentato per meglio raccogliere le acque piovane, esemplifica invece bene la sorte della maggior parte di questi spazi. Diminuiti o scomparsi i monaci, dissoltisi i terreni agricoli un tempo appartenuti ai conventi, per ricostruire l'ambiente del verde organizzato che si legava a questi luoghi, dobbiamo per lo più affidarci agli antichi cabrei, le mappe catastali che ci restituiscono l'immagine di campi accuratamente coltivati e chiostri monastici inevitabilmente rettangolari, sovente chiusi da portici sui quattro lati. Al tempo della loro realizzazione, in un periodo in cui mancavano esempi di giardino secolare, essi offrivano una chiara immagine di giardino formale dalla valenza religiosa; anche se i giardini dei conventi dovevano ugualmente trasmettere lo stato di benessere materiale delle comunità religiose.Il carattere devozionale dei chiostri si esplicitava sia nel generale regolato ordine dell'insieme (epifania tanto della disciplinata concezione del mondo ultraterreno quanto della gerarchia ecclesiale terrena), sia nelle molte simbologie legate a piante e fiori lì coltivati. Così come il fiore di campo simboleggiava il martirio, per l'essere stati i martiri esposti allo scherno pubblico, il fiore di giardino si legava piuttosto all'idea di verginità, per l'essere schivo, non esposto agli sguardi indiscreti.
L'associazione della verginità con i fiori del giardino segregato, dell'bortus conclusus, divenne una immagine comune nell'ultimo Medioevo, quando il culto della Vergine Maria si espanse per l'Europa. Alberto Magno, alla metà del Duecento, dedicò l'ultimo libro del suo trattato De Laudibus Beatae Mariae Virginis, all'hortus conclusus come simbolo di Maria.

 Vi descrive Dio come un giardiniere che pianta erbe e alberi, ognuno dei quali simboleggia una specifica virtù di Maria; il giardino piantato nel chiostro rappresentava appunto queste virtù e nella sua totalità raffigurava insieme la Chiesa e il Paradiso.Santa Caterina da Siena scrisse nel 1378 al papa Gregorio XI sollecitandolo a riformare il "giardino della santa Chiesa con i suoi fragranti fiori che dovrebbero portare odor di virtù"'. Sebbene non ogni monaco era probabilmente al corrente delle interpretazioni che dell'hortus conclusus erano state offerte dagli scrittori cristiani, veniva da essi identificato con valori religiosi e morali il giardino, soprattutto quello del chiostro. Chissà allora se fosse giunta proprio da un chiostro la suggestione del magnifico giardino quadrato citato nel 1325 da messer Ventorinus, nel corso del processo di canonizzazione di San Nicola da Tolentino, tenutosi in quell'anno a Macerata. Alcuni anni prima, mentre il povero Ventorinus giaceva infermo ed era ritenuto pressoché morto, San Nicola era apparso alla moglie Nicolucia, in preghiera, rincuorandola e dicendole di essere venuto a restituirle il marito. Il quale ignaro
Iel suo stato di moribondo, interrogato su dove si rovasse in quel momento il suo spirito, rispose che  gli pareva di trovarsi nudo in un giardino, il Più bello che si possa immaginare per il verde assai ameno, per le piccole piacevoli piante, armoniosamente disposte d'ogni parte e d'ogni parte recintato con dette piante e, mentre stava cosi, gli sembrava di essere nello stato più beato ove si potesse mai stare, pensando che, invero, li fosse la gloria più completa e andava dirigendosi per tale giardino con grande diletto"'.
La simbologia del giardino quale scrigno di virtù dovette peraltro avere una certa permanenza, se alla metà del Seicento, Agostino Mandirola, minore francescano di Castelfidardo e autore di un delizioso ed editorialmente fortunatissimo volumetto sulla coltivazione dei fiori, intitolato Manuale di giardinieri pubblicato alla metà del Seicento, introdusse la sua opera con una dedica a un aristocratico maceratese che oggi ci appare ironica, ma che al tempo non era tale. Il Mandirola, proseguendo quella tradizione ecclesiale di identificazione del giardino quale scrigno di valori morali, si rivolgeva infatti al destinatario dell'opera, il nobile maceratese Francesco Ricci, qualificandolo quale "dilettoso Giardino di gentilezza, di benignità, di magnanimità, e di tutte le virtù Eroiche; che la rendono al sommo amabile, e riguardevole, anzi la fanno un nobilissimo Fiore tra Cavalieri. Nella cui Illustrissima Casa fiorita Prole ha già cominciato à felicemente germogliare, e con aura favorevole del Cielo si vedrà tuttavia fecondamente à moltiplicare".
Le crociate avevano aperto all'Europa, e soprattutto alle regioni di imbarco per quelle imprese, il patrimonio botanico del vicino Oriente; così chiostri e giardini dei conventi non mostravano solo fiori e alberi autoctoni, ma erano sovente provvisti anche di piante esotiche che giungevano dal Levante e dalle isole del Mediterraneo. A non mancare mai erano gli aranci amari, i melangoli, i cui frutti dorati evocavano nelle menti dei frati i santuari della Terra Santa; ma nelle zone costiere più meridionali delle Marche, la consuetudine di coltivare agrumi anche in piena terra doveva rendere i monasteri veri giardini delle Esperidi, almeno a credere a questa descrizione di fine Cinquecento del convento francescano di San Basso a Cupra Marittima, in cui è descritta una visita al monastero, conclusasi con un piacevole intermezzo nel frutteto circostante il monastero: "Desinamo fuori ad un Giardino pieno di vari frutti come Naranci, Pomi Adami, Cedri, ed in alcuni alberi si vedevano insieme fiori e frutta".

Franco Panzini





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